Physique du role

11/02/2014
Mark Twain

Mark Twain

La spocchia letteraria

25/01/2014

Accettate un consiglio da qualcuno che possiede autorità in materia pari a zero e che si permette ugualmente di contestare un noto traduttore di una altrettanto nota scrittrice britannica?
No? Fa nulla, ormai son già lanciato…
Se non siete di origini toscane, abbiate la furbizia di evitare l’uso di un certo pronome/aggettivo dimostrativo che potrebbe rivelarsi del tutto erroneo nella gran parte dei casi; specialmente se usato, ad oggi, per tentare di conferire tono pomposo e antiquato al testo.
Oppure, eventualmente, leggete bene prima qua sotto:

Codésto, cotésto, pr., ag. * ECCUM TIBI ISTE. Di persona o cosa relativa o vicina alla persona a cui si parla.

Fonte: Zingarelli, edizione del 1966.

Gli esempi dal passato – Un interessante metodo di risoluzione delle controversie politiche più spinose

10/01/2014
leggiapallate

14 dicembre 1923

 

Frammenti [a parziale giustificazione di certa avversione nei confronti della poesia]

01/01/2014

L’età ormai chiede austera prosa;
scaccia la rima fantasiosa

Frammenti

16/12/2013

Gli uomini mi hanno chiamato pazzo, ma ancora non è risolta la questione se la pazzia sia o meno l’intelligenza più elevata, se molto di ciò che v’è di splendido, se tutto ciò che è profondo non scaturisca da una malattia del pensiero, da umori della mente esaltata a spese del comune intelletto. Coloro che sognano ad occhi aperti sono consci di molte cose che sfuggono a chi sogna solo di notte. Nelle loro grigie visioni colgono frammenti d’eternità e destandosi fremono nell’intimo allo scoprire di essere stati sulla soglia del gran segreto. A tratti, apprendono qualcosa della sapienza che ha per oggetto il bene, e qualcosa di più sulla pura conoscenza del male. Penetrano, benché senza timone o bussola, nel vasto oceano della “luce ineffabile” […].

Caterina – Seconda parte

15/11/2013

Avevo distintamente percepito un accento contrariato nella voce dalla ragazza, senza per altro, sul momento, comprenderne del tutto il senso; ricordo che pensai a come, in sostanza, non avessi fatto nulla per suscitare una reazione di questo genere e che con molta probabilità il suo atteggiamento era dovuto a qualcosa d’altro, assai poco imputabile alla mia presenza. Le risposi così quanto più gentilmente mi fu possibile, e nel modo più naturale e sincero che lì per lì mi venne di usare: le restituii il saluto e confessai di aver proprio deciso, pochi istanti prima che mi salutasse, di tornarmene da dove ero venuto, per evitare di recare disturbo o fastidio agli abitanti della casa. Il che era, appunto, la verità, come ho accennato in precedenza.
Nei pochi secondi trascorsi durante il nostro brevissimo, se così si può definire, colloquio, mi accorsi con un certo fastidio di non aver distolto lo sguardo dalle sue palpebre nemmeno per un attimo, anche solo per apprezzare meglio quelle che, lo avevo intuito abbastanza chiaramente in precedenza, erano le fattezze di un viso fresco, ben proporzionato e gradevole in tutti i suoi aspetti.
Stavo appunto interrogandomi su questo, immaginando intanto che la giovane si sarebbe di nuovo rivolta a me, quando a una delle due piccole finestre del piano superiore, aperta in precedenza, notai qualcuno che si stava avvicinando, trattenuto da una leggera tenda azzurrina che sembrava essersi come impigliata da qualche parte impedendogli di raggiungere il davanzale. Dopo aver armeggiato a lungo, non senza aver provocato, urtando in maniera scomposta qualcosa vicino a lui, un certo trambusto e facendo sentire in conseguenza una soffocata imprecazione, riuscì alfine nel suo intento. Vidi allora un uomo, apparentemente di mezza età, piuttosto robusto ma che mi figurai di statura modesta, calvo, con un viso abbronzato e minaccioso dai tratti piuttosto marcati, come lavorati con strumenti inadatti a creare lineamenti di piacevole e armoniosa fattura. Si era affacciato e mi guardava torvo, corrucciato, appoggiandosi con entrambe le mani alla base dell’intelaiatura della finestrella.
Anche la ragazza si era accorta dei rumori provenienti dall’interno, e spostandosi un poco sulla sedia, con fare incerto, si era rivolta verso la casa, con la testa all’insù.
– Non ti preoccupare pa’, è solo un girellone di passaggio.
Quello rivolse un’occhiata rapida alla figlia, poi di nuovo a me e infine si ritirò senza una parola, questa volta riuscendo a evitare abilmente le insidie della tenda che dietro di lui aveva preso a ondeggiare lievemente.
Mi chiesi subito cosa avesse voluto intendere la ragazza con quel termine, girellone, che mi pareva sotto molti aspetti, in considerazione del fatto che il suo tono proseguiva a rimanere chiaramente indispettito nei miei confronti, piuttosto offensivo. Nel mentre, lei aveva assunto di nuovo lo stesso contegno quale avevo osservato al mio arrivo, riprendendo a tenere il viso girato verso di me, e appariva come intenta al cercare il modo più adatto per continuare la debole conversazione avviata poco prima.
– Beh: che ci fa da queste parti?
La domanda mi parve più che lecita. Risposi che stavo facendo una semplice passeggiata, e calcai molto su quel semplice, credo per difendermi indirettamente dal ridicolo appellativo con il quale mi aveva indicato al padre – e, forse, anche dal modo con cui proseguiva a rivolgermisi -, e specificai che ero passato molto spesso da quelle parti senza aver mai notato bene il piccolo sentiero che mi aveva portato fin lì. Continuavo intanto a fissare con ostinazione quelle palpebre, sempre più stupito e contrariato del mio ben strano comportamento, cominciando altresì a percepire qualcosa di nuovo: sentivo infatti che mi montava dentro un assurdo desiderio, ancora in parte celato e di là da venire del tutto alla coscienza, ma che già intuivo – mi spiace ora dovermi esprimere in maniera così strana: potrà sembrare ai più irriguardoso e inadatto ma sento che è il modo migliore per darne accenno e in seguito, se ne sarò in grado, cercherò di spiegarmi meglio – come legato indissolubilmente a quei suoi occhi che mi venivano forzatamente negati. Mi costrinsi dunque a scuotermi un poco, a guardarmi in giro e muovere qualche passo, imponendomi  il ricercare con la vista un qualsiasi oggetto sul quale posare uno sguardo più rilassato e inoffensivo.
– Se vuol vedere meglio la casa si senta libero di farci un giro intorno; non disturba nessuno con la sua presenza anche se probabilmente mio padre le ha fatto intendere il contrario.
In effetti il padre, con quel suo silenzioso fare burbero, mi aveva dato esattamente quella sensazione; ma avrei voluto spiegarle chiaramente come lei stessa, con il suo tono supponente e infastidito, non risultasse davvero così ben disposta nei confronti di un occasionale visitatore, il quale comunque, solo pochi minuti prima, era stato sul punto di andarsene proprio per non recare noie a chicchessia. Malgrado ciò, non mi sembrò conciliante il farle notare il mio appunto, se non altro per non rintuzzare a mia volta quel suo spiacevole modo di fare, e mi limitai così a ringraziarla molto per l’offerta, mostrandole nel migliore dei modi quanto avessi apprezzato il suo suggerimento a proposito del fare un giro intorno all’abitazione, dato che consideravo questa come un piccolo incantevole gioiello del tutto simile ad un elemento stesso della natura, cresciuto lì in mezzo come le piante e gli alberi che la circondavano.
Già a queste mie parole non resistetti alla tentazione di volgere nuovamente il mio sguardo su di lei, in cerca di una sorta di reazione positiva al mio dire. Nulla era cambiato in quel suo atteggiamento composto: continuava a seguire i miei movimenti rivolgendo il volto verso di me, come avrebbe fatto, pensai, un qualsiasi soggetto dotato del pieno uso della vista; naturalmente lei mi “vedeva” con l’udito, ascoltando i miei passi sul terreno irregolare, probabilmente ben allenata a questo genere di esercizi dai lunghi anni di cecità. Mi accorsi allora di come non fossi stato in grado, fino a quel momento, di notare alcun cambiamento nelle espressioni del suo viso,  non per un eventuale deficit da parte sua in questo senso. Mi parve come se, lasciandomi attrarre totalmente da quelle irresistibili palpebre abbassate, qualsiasi eventuale segnale di mutamento in lei fosse sempre inesorabilmente sfuggito alla mia attenzione: un semplice sorriso forzato, una smorfia, o anche  l’accennare con la testa. In breve, e una volta di più ne comprendevo l’assurdità, solo quegli occhi negati assorbivano completamente il mio interesse. Questa nuova consapevolezza portò infine quel capriccio di cui ho anticipato, ancora nascosto, a palesarsi in tutta la sua squallida idiozia, e giunsi a capire chiaramente quale che fosse il mio intimo, autentico desiderio: volevo assolutamente vedere i suoi occhi. Mi convinsi che la vista di essi si sarebbe accompagnata, con molta probabilità, a sensazioni del tutto spiacevoli: mi figurai qualcosa di spento, lontano, assente, forse anche di deformato, addirittura orrendo e spaventoso; eppure avvertivo con chiarezza di non preoccuparmi realmente di ciò che mi sarei effettivamente trovato di fronte se fossi riuscito a vedere.
Mi resi conto adesso che se avessi avuto l’esigenza di spiegare tutto questo a qualcuno, avrei forse potuto farlo meglio ammettendo che in realtà il problema non stava tanto nel cosa volevo vedere, quanto nel cosa non volevo assolutamente più vedere: quelle odiose palpebre abbassate.

Frammenti [da un estratto dell’articolo di Christopher Hitchens contro Kissinger]

11/11/2013

[…] giustificheremo vergognosamente l’antico filosofo Anacarsi, il quale sosteneva che le leggi sono come ragnatele: forti abbastanza per legare i deboli ma troppo deboli per vincolare i forti.

Caterina – Prima parte

07/11/2013

In quegli anni attraversavo un periodo della mia vita caratterizzato sovente dalla quasi totale mancanza di attività contingenti che potessero portare via anche una pur minima quantità di quel prezioso tempo, cosiddetto libero, che tutti desideriamo possedere e dedicare a noi stessi. In conseguenza di ciò potevo sbizzarrirmi, nei limiti s’intende della presente disponibilità economica, nel ricercare occupazioni fra le più piacevoli e disparate che la quotidianità e l’ambiente potessero offrirmi.
Ero solito, fra le altre cose, approfittare dell’incantevole, deliziosa campagna che da tutte le parti veniva ad abbracciare la piccola e accogliente città in cui avevo ormai da qualche tempo preso dimora. Questa campagna, pur se contraddistinta quasi esclusivamente da alture boschive di monotona compattezza e uniformità, mi risultava ugualmente attraente, ricca com’era di scorci e angoli fra i più piacevoli che avessi mai veduto, accompagnata da un corroborante sottofondo sonoro del quale, so io quanto!, dopo mesi e mesi passati a farmi largo fra la confusione e il trambusto della città, sentivo di avere imperioso bisogno. Presi a frequentare, dopo aver esplorato in quasi tutte le direzioni la provincia circostante, una zona collinare non molto distante dalla mia abitazione, particolarmente povera, diciamo così, di insediamenti umani e quindi maggiormente adatta a chi, come me, fosse stato alla ricerca di luoghi romiti e ricchi di pace.
Possiedo, e possedevo anche a quel tempo, una involontaria tendenza ad un’abitudinarietà temporanea, che porta spesso a fossilizzarmi, forse un po’ stupidamente, nel ripetere talune routine che mi appaiono, sul momento, indubbiamente gradevoli e appaganti, salvo poi, abusandone appunto fino all’eccesso, diventare improvvisamente noiose ai limiti dell’intollerabilità.
Ed era appunto nell’immediata vigilia di uno di quei momenti, in cui prendo coscienza di quanto sia stufo di ripercorrere, per l’ennesima volta, gli stessi passi, che mi capitò di conoscere Caterina.
Il sentiero che avevo preso l’abitudine di seguire nelle ultime settimane iniziava il suo tragitto a una manciata di chilometri dal mio quartiere di residenza, proprio nel punto in cui si poteva distinguere la fine della periferia cittadina e accogliere l’avanguardia dell’immediata aperta campagna, pur macchiata questa ancora qua e là da piccoli agglomerati abitativi di recente costruzione, frammisti ad alcune vecchie case un tempo effettivamente considerate rurali ma che adesso potevano solo guardare stupite alle moderne, un po’ invasive e anonime villette loro compagne con un misto di mal celata mesta invidia e di fiera alterigia, consapevoli della loro innegabile anzianità e, in certi casi, decadenza, così come di una nobile appartenenza storica a quei bei luoghi.
Questo sentiero, in verità, nelle sue prime centinaia di metri si poteva a buona ragione considerare strada a tutti gli effetti, pur se ghiaiosa e sconnessa, nel tratto in cui, ai suoi lati, si alternavano alcune piccole villette dotate tutte, senza distinzioni, del tipico giardinetto d’ordinanza, con il suo prato meticolosamente falciato di fresco e l’immancabile arredamento di plastica bianca. In seguito, dopo l’ultima abitazione sulla destra, il percorso si faceva improvvisamente più stretto e la ghiaia lasciava posto a due strisce di terra battuta piuttosto accidentate, divise al centro da un incerto e sottile strato di erba incolta e gialliccia; proseguendo, poco meno di un chilometro dopo, mutava infine in ciò che si può definire propriamente sentiero. Qui cominciava la salita vera e propria verso la collina, la vegetazione si faceva più fitta e corposa e finalmente, attorniati da essa, si poteva godere dei buoni rumori della natura, lasciandosi alle spalle gli ultimi rimasugli della stridente presenza umana.
Snodandosi placidamente attraverso la boscaglia e senza caratterizzarsi in passaggi troppo impervi o impegnativi, il percorso lasciava piena libertà alla contemplazione, all’ascolto e persino alla meditazione, per coloro i quali possiedano la sensibilità sufficiente per questo genere di attività. Io, nel mio piccolo, mi limitavo a godere dello spettacolo offerto dal ricco verdeggiare del luogo, dal profumato sottobosco, dall’ombrosità muta e rispettosa intervallata solo qua e là, nelle giornate più limpide, da qualche sfacciato raggio di sole sfuggito all’intrico di rami e foglie sovrastante. La rinfrescante brezza che in quelle giornate di luglio giungeva fino a me, rendendo la salita ancor più leggera e tonificante, si traduceva in un fruscio di fogliame incessante, simile ad una sorta di timido applauso della natura a se stessa, rilassante per il corpo e per l’anima, coperto soltanto, a tratti, da rapidi e incerti richiami di uccelli, nascosti lassù da qualche parte.
Come accennato, la mia ridicola abitudinarietà mi aveva portato su quel sentiero già molte volte e iniziavo appunto a percepire vagamente le avvisaglie di quella noia improvvisa che, prima o dopo, mi raggiunge inevitabile, quando mi ostino a occupare il tempo sempre nelle solite attività.
Proprio mentre stavo riflettendo su quante volte avevo già percorso quel sentiero, mi capitò un giorno di notare con più consapevolezza del solito una appena accennata biforcazione alla mia sinistra, che nei passaggi precedenti avevo perlopiù trascurato, credendo impossibile potesse portare in qualche luogo che non fosse la boscaglia più fitta e impenetrabile.
Mi decisi infine a imboccare il nuovo sentiero, se non altro per interrompere la monotonia, e con mio grande stupore, dopo alcune centinaia di metri di vegetazione sempre più rada, mi ritrovai al cospetto di una costruzione, una vecchia casa in pietra di modeste dimensioni, perfettamente incastonata in una piccola radura che le fungeva da giardino naturale.
La casetta, indubbiamente di antica edificazione ma tuttora perfettamente conservata, constava di due piani, con altrettante piccole finestre per ognuno di essi e mostrava, sul lato più corto della costruzione di forma rettangolare, al piano superiore, una finestra cieca all’apparenza murata in epoca recente. Questa era ciò che per primo colpiva lo sguardo di chi fosse arrivato, come me, dal breve sentiero che avevo percorso. Sopra il bel tetto spiovente, tappezzato di vecchie tegole segnate dalle intemperie ma apparentemente ancora ben salde al loro posto, si intravedeva la fine di un tozzo camino costruito in mattoni scuri, sormontato dal suo bel comignolo annerito dal fumo; la piccola e spoglia porticina di legno, posta fra la due finestrelle a pianterreno, non possedeva l’aspetto di un ingresso in quanto tale ma era, ad una prima occhiata, l’unico probabile punto di accesso verso l’interno dell’abitazione. Intorno ad essa, come detto, i limiti della piccola radura servivano da recinto naturale, interrotto solamente da una modesta straducola posta esattamente di fronte alla facciata della casa – e, naturalmente, dal mio sentiero. Nessun cancello, muretto o steccato demarcavano la proprietà da alcuna parte; la natura stessa sembrava essersi ritirata rispettosamente su se stessa per non offendere troppo, con le sue scomposte propaggini, le eleganti fattezze della costruzione.
A pochi passi dalla modesta porta d’ingresso, su di una bella sedia di legno chiaro, notai, ma solo dopo qualche minuto l’esser giunto sul luogo, una giovane ragazza. Inizialmente sfuggita al mio sguardo, probabilmente a causa di quella che mi sembrò una sorta di inspiegabile capacità a calarsi perfettamente, con tutta la sua persona, nell’atmosfera del luogo, se ne stava compostamente seduta con le mani in grembo, le gambe raccolte sotto l’impagliatura della sedia e gli occhi chiusi, probabilmente assopita o forse impegnata in qualche profonda riflessione. Vestiva di un semplice abito femminile a motivi floreali, di foggia un po’ antica mi parve, che nella penombra del luogo risultava più scuro di quanto dovesse effettivamente essere.
Accortomi di lei, presi immediatamente la decisione di tornare in fretta sui miei passi, per evitare di disturbarla o di violare in ogni caso la proprietà altrui senza motivo alcuno; a malincuore, devo ammettere, perché il luogo mi ispirava una tranquillità allettante e, pensavo, sarei rimasto più che volentieri per qualche tempo a contemplare la casetta e i particolari della sua foggia, fantasticando, come mio solito, sulla sua storia e sulle vite di chi l’avesse abitata negli anni. Proprio mentre stavo girando i tacchi, notai di sfuggita il viso della ragazza che si voltava verso di me, senza aprire gli occhi, ma non mi fermai e presi a camminare risoluto alla volta del noto sentiero.
– Buongiorno. Non sto dormendo, sa.
Queste furono le parole con le quali, cogliendomi di sorpresa, la ragazza si rivolse a me; quando mi fermai e mi girai per risponderle, sul suo viso vidi quelle palpebre che proseguivano a rimanere abbassate, chiuse su ciò che istintivamente, ne presi consapevolezza in quel preciso istante, compresi essere per lei un’odiosa, invincibile oscurità senza via d’uscita.

In mancanza di “meglio”, ancora Frammenti

06/11/2013

Si palesò che razza di creatura sia l’uomo: saggio, intelligente e ragionevole in tutto ciò che riguarda gli altri, e mai in ciò che tocca lui medesimo. Di quanti consigli prudenti e ben fondati è prodigo nei momenti difficili della vita! “Che testa fina!” gridano in coro “che carattere fermo!” Ma prova ad assestare a questa testa fina qualche colpo, fai che capiti a lui di trovarsi in un momento difficile e… fffff! si volatilizza il carattere, la fermezza si sgretola, e viene fuori un patetico vigliacchetto, una nullità, un bambinetto, o, come direbbe Nozdrev, un minchione!

Frammenti [redivivi] dell’introduzione di quel che leggo

23/10/2013

Lo scrittore l’aveva già scritto nella sua lettera a Gisèle d’Estoc nel gennaio del 1881: “Metto l’amore tra le religioni, e le religioni tra le più grandi sciocchezze in cui sia caduta l’umanità. Adoro Schopenhauer, e la sua teoria dell’amore mi sembra la sola accettabile. La natura, che esige degli esseri viventi, ha messo l’esca del sentimento attorno alla trappola della riproduzione“.